17 luglio 2009

A proposito di dissenso (I)

Risponderai dell'ideale?



Sulla responsabilità degli intellettuali: è tempo di opporsi decisamente al senso di dignità della cosiddetta Realpolitik [1]


L'attività civile indipendente dell'URSS di quei tempi non era in alcuna misura un'opposizione politica. Quest'attività era senza paura, aperta, ingenua, senza compromessi con l'ufficiosità di allora, ma non dichiarava in alcun modo i propri scopi politici e non era di massa. Ci hanno chiamato “diversamente pensanti” [2], “dissidenti”, più tardi “attivisti per i diritti umani”, ma mai “politici”. Fra l'altro inquirenti e procuratori ci convincevano insistentemente ad ammettere di avere lo scopo profondamente politico di indebolire il potere statale per mezzo di calunnie. Tuttavia, stabilita la condanna, vi dicevano: “Ma quale prigioniero politico? Lei è un criminale”. Il potere che dettava le condanne ci guardava con paura e rabbia e questo si può capire. Ma sapevano bene quanto pesa la verità pronunciata ad alta voce. (...)

Fra l'altro tra noi c'erano allora anche quelli che formavano l'inconsistente minoranza dei sostenitori della “politica reale”, che affermavano seriamente di stare già costruendo un'opposizione politica di qualche o che volevano costruirla presto (la cosa, pare, si riduceva a nomi pomposi, per esempio DDSS – Demokratičeskoe Dviženie Sovetskogo Sojuza [3]). Secondo me, queste erano inclinazioni, indirizzi di pensiero, piuttosto che qualcosa di reale. In parte erano comunisti che allora conservavano ancora le proprie convinzioni (l'esempio più significativo, chiaro e degno è Pëtr Grigor'evič Grigorenko [4]); c'erano anche politici di grande talento, che non potevano esistere nel contesto russo, come V.K. Bukovskij [5]. (...)

Comunque la maggioranza, diffondendo il samizdat, protestando contro le repressioni, indirizzandosi in prigione senza replicare, fondando una stampa periodica clandestina indipendente (la nota “Chronika” [6]), non contava minimamente di riuscire a vedere mutamenti politici. Ricordo come B.I. Cukerman, una delle maggiori autorità di quell'ondata, replicando a chi diceva che Bisanzio è marcita viva per 300 anni, prima di cadere, rispose pensoso: “Beh, 300 anni mi vanno del tutto bene”.

La nostra “apoliticità” era anche la radicale diversità sovietica dalla strategia dei nostri fratelli europei, dalla strategia delle grandi rivoluzioni incruente.

Senza pretendere di andare a fondo, mi permetto di fare alcune annotazioni sulle cause, le particolarità, la logica interna della nostra posizione.

Una lotta politica seria è impensabile senza rivolgersi alla società. Con cosa e a chi potevamo rivolgerci nell'URSS brezneviana?

Volevamo sapere la verità e dire la verità com'è, indipendentemente da colui, a cui fa comodo.

“Basta mentire” e ancora “rispettate le vostre leggi” – ecco, tratteggiata rozzamente, la base della nostra posizione e i confini in cui si sviluppava. Ciò con cui saremmo andati al popolo, se qualche “appello al popolo” avesse potuto aver luogo. Non era così poco, a dir la verità, anche se si era consapevoli che non fosse abbastanza. Adesso vedremo a chi questo sarebbe stato indirizzato.

Ahinoi, la nostra verità non era necessaria alla società. 999 su mille erano scioccati o offesi da essa, nel migliore dei casi la ritenevano un tentativo vanaglorioso di alcuni sfortunati per ottenere notorietà o un gioco pericoloso di gente che faceva progetti stando con la testa tra le nuvole.

Non avrebbe potuto essere altrimenti – siamo tutti stirpe del popolo sovietico. Ma che popolo è?

Molti successi del manager di successo [7] I.V. Stalin erano condizionati quasi esclusivamente dal suo principale successo – la selezione. Stalin produsse, né più né meno, una nuova comunità storica – il popolo sovietico. Paziente, sgobbone, sospettoso, rabbiosamente sprezzante la riflessione, cioè intellettualmente vigliacco, ma con il noto coraggio fisico, piuttosto aggressivo e incline a muoversi in frotte, in cui la rabbia e il coraggio fisico si accrescono notevolmente. In generale queste qualità ci sono in qualsiasi popolo, la differenza è solo nel modo di esprimersi. I criteri selettivi staliniani, lo ammettiamo, erano molto alti. Queste qualità erano direttamente pianificate. Ricordiamo quanto fastidiosamente ci veniva ficcato in testa per mezzo della stampa e di adunate volontario-forzate [8] il superimportante compito dello stato: lo sviluppo nel popolo delle qualità necessarie ai costruttori del comunismo, ma chiamate, si capisce, del tutto diversamente – patriottismo, consapevolezza, vigilanza, fedeltà al proprio partito, ecc. Stalin capiva ottimamente che senza un tale popolo, del tutto e sinceramente sottomesso a lui, i suoi piani di stato, duri, imperativi, ristretti in tempi minimi, sarebbero crollati.

Il lavoro veniva portato avanti con metodi produttivi standard; professionalmente lo chiama “selezione sullo sfondo di una provocazione”.

Se il selezionatore produce, per esempio, piante resistenti a una malattie, infetta di questa malattia tutta la coltura. Così è per lo sfondo di provocazione. Il selezionatore utilizza gli esemplari sopravvissuti (i più resistenti) come materiale per incroci, nuove selezioni, ecc. I.V. Stalin portò avanti la sua selezione sulla base di paura, attitudine da sgobboni, vigliaccheria del tutto consapevolmente, anche se non pensava certamente ai concetti di selezione agraria.

Le colture di selezione, è chiaro, erano i lager, la dekulakizzazione e la collettivizzazione, ma non solo. Le purghe, le critiche, gli incontri e le manifestazioni da sudditi fedeli, il dovere civico della delazione, le lezioni di odio nell'istruzione politica, semplicemente l'istruzione con il suo lavaggio del cervello, ecc. Mi si opporrà che questa non è selezione, ma educazione. E' così: l'educazione è ancora più importante nell'evoluzione che si vuole dare al popolo. Tuttavia, rifatti i conti, è anche un momento mediato di selezione. Ma questa è una questione per specialisti, peraltro non facile. Ricordo solo che Ju.N. Afanas'ev parla di un'evoluzione del popolo che ha avuto luogo nel corso dei secoli. Questi è uno storico, per lui è più evidente.

Il successo della selezione è la resistenza del tipo o della specie prodotti. Vedremo come appaiono i risultati staliniani oggi.

Solo un esempio – le recenti elezioni. Undici partiti in lizza. E alcuni soggetti della cosiddetta Federazione, dove i risultati sono simili a quelli ceceni. E in Cecenia il 99, 5% si è recato alle urne, il 99, 4% ha votato per “Russia Unita” [9]. Perfino gli apologeti di “Russia Unita” capiscono che questa è una menzogna. Lo 0,01% in media a ogni concorrente di quelli di “Russia Unita” – questo è il colmo. Lo capisce Putin – e mente. Tutte le più alte cariche dello stato mentono pubblicamente, come se questo fosse il risultato della libera espressione della volontà popolare. Tutti i loro ascoltatori sanno che gli stanno mentendo. Essi stessi sanno che non gli credono neanche i sostenitori. E i sostenitori sanno che i mentitori sono consapevoli di non essere creduti.

Perché allora la menzogna? La menzogna è un mezzo per ingannare qualcuno. Qui non si inganna nessuno – tutti sanno tutto. Noi viviamo in un paese basato sulla menzogna rituale. Questa è necessaria semplicemente per dimostrare la propria profonda umiltà – per rassicurare il potere e dichiarare senza vergogna, in modo offensivo, da villani l'autovalutazione della società: come dire, fate quello che volete; non vi preoccupate – nessuno si vergogna. Non ci saranno Majdan [10] per te. Nessuno dirà: “Non siamo un gregge. Non permetteremo che ci trattino così”.

Un po' di statistiche fatte in casa. In Russia ci sono 93.000 seggi elettorali. Per correggere i risultati delle elezioni tecnicamente sono necessari non meno di 3-4 membri della commissione elettorale. Non affermo affatto che ogni commissione compia sempre brogli. Ma a ciascuna di esse in qualche modo è stata trasmessa un'allusione a “cifre di controllo”, a risultati raccomandati e ognuna è pronta a corrispondere, se c'è bisogno. Ciò significa (contando anche commissioni al di sopra di quelle di sezione), che circa mezzo milione di buoni e onesti cittadini, che non sono criminali, o compiono reati gravi o sono pronti a compierli. Questi non hanno paura a compiere reati, hanno paura a non compierli. E quanti sono quelli che sono al servizio delle risorse amministrative di cui si parla tanto? Una parte niente affatto piccola degli elettori capisce bene le dimensioni della truffa elettorale – e tace.

Anche questo è un risultato che parla bene della selezione.

Stalin ha portato a compimento in modo impressionante il collasso morale della nazione, che domina finora. Ai tempi di Chruščëv e Brežnev tale decadenza si è approfondita ancor più di ora per l'inerzia della paura.

Questa decadenza e questa paura, sempre pronta a diventare panico, sono stati tra i motivi principali per cui i dissidenti evitavano consapevolmente grandi sforzi organizzativi. Non ci siamo mai rivolti alla società. Neanche ai nostri amici proponevamo di firmare qualche protesta, ma solo di leggerla – non si può far forza alla scelta personale responsabile. Le nostre pubblicazioni erano essenzialmente indirizzate individualmente a ciascuno che volesse rivolgervi attenzione.

Adesso capisco quello che allora sentivo intuitivamente – la speranza in un graduale accumulo di una massa critica di persone civicamente preoccupate, oneste, coraggiose e intelligenti, che abbiano autorità morale. E l'unico mezzo per raggiungere tale massa è dare la possibilità di ricevere un'informazione credibile a chiunque la cerchi, di parlare di problemi sociali direttamente e duramente, di attuare la libertà in un paese non libero “per via cospirativa”, come dicevano un tempo i bolscevichi.

Si capisce, volevamo che la nostra posizione una volta o l'altra (anche dopo 300 anni) portasse frutti politici e sociali. Ma eravamo convinti che questi frutti non sarebbero maturati in un tempo osservabile (Sacharov parlò direttamente di questo in una nota intervista).

Perciò non valutavamo le lontane prospettive, che promettevano che un giorno la quantità di nostri conterranei che sentivano la necessità di agire in conformità al senso di responsabilità civica avrebbe raggiunto le dimensioni della massa critica – tali da poter agire sulla società.

Qui, secondo me, c'è la differenza fondamentale tra l'URSS e l'Europa Orientale e tra noi e i nostri amici occidentali. In Europa Orientale, penso, negli anni '80 c'era già tale massa critica – si era ristabilita quella d'anteguerra. Di conseguenza sia i KOS-KOR [11], sia Charta 77 acquisirono scopi politici presto e naturalmente – avevano qualcosa su cui appoggiarsi. Chi lo discuterebbe, lo scopo agognato e generale dell'Est europeo era strapparsi dai soffocanti abbracci sovietici. Ma anche questa lotta di liberazione nazionale, che non aveva diritto di trasformarsi in rivolta, aveva bisogno dell'appoggio popolare e lo acquisì. Ma il nucleo di tale resistenza era una parte non numerosa della società, stimata, dotata di senso di responsabilità civica e di abitudine a pensare in modo indipendente, – quella massa critica.

Ahinoi, in Russia non l'abbiamo finora. Perciò non c'era neanche motivo di esaminare le varianti di un lontano futuro. Ma c'erano motivi vitali, davvero reali, a determinare la nostra scelta.

Il principale motivo era l'acuto senso di incompatibilità morale con il regime. Le nostre decisioni erano dettate dalla caparbia aspirazione a meritare il diritto al rispetto per se stessi, erano una forma di difesa della propria dignità. Appariva non poca gente pronta a comprarsi questo diritto con un periodo di detenzione – l'opposizione morale. Questa ondata di intellettuali allora non ebbe alcuna influenza immediata, diretta sull'evoluzione politica del paese. Allora aveva appena cominciato a formarsi un'influenza molto importante, ma indiretta, mediata dall'Occidente, che si manifestò notevolmente più tardi.

Ma ancora non prevedevamo che fosse vicina, non ci dava pensiero, in quanto non attendevamo il suo ruolo rapido e decisivo; certo, ci rallegravamo venendo a sapere che l'Occidente ci sentiva, aspiravamo a questo, ma non contavamo minimamente su conseguenze pratiche.

Sorge una domanda: oltre all'autoconferma c'era qualche risultato socialmente significativo delle nostre azioni sfacciatamente rischiose? (Io penso che la pacifica e caparbia indipendenza pubblica di un gruppo di cittadini in un paese totalitario sia già un fattore socialmente significativo, ma c'era ancora qualcosa?) Rimando di nuovo all'intervista di Sacharov. Alla domanda “Perché fate qualcosa che non porta a un rapido risultato?”, Andrej Dmitrievič rispose: “Ognuno fa quel che può. L'unica cosa che sa fare l'intellighenzia è costruire un ideale. Che lo costruisca”.

Certo, Sacharov aveva ragione, parlando della responsabilità civica dell'intellighenzia. In realtà, per buon senso, per il nostro ruolo sociale, per coscienza, per le nostre capacità professionali e per il nostro status ci spettava costruire un ideale, incarnando nella vita questa responsabilità, che non era mai stata guidata dal nostro potere, la cui manifestazione nella società il potere temeva e odiava. Nelle discussioni nelle cucine degli intellettuali superavamo la menzogna sovietica, l'isolamento che dava vita al nostro semianalfabetismo, esaminavamo i meccanismi della democrazia rappresentativa e del diritto nell'ideologia di una società aperta. Ne risultava che inventare qualcosa è già un ideale, della cui costruzione parlava Sacharov.

Ecco un modello pronto, esistente da abbastanza tempo, che funziona con pieno successo, garantendo allo stato e alla società la possibilità di uno sviluppo dinamico e ad ogni cittadino libertà, sicurezza, indipendenza e dignità. Fa questo ponendo il potere sotto il controllo della legge e della società – è così semplice e convincente che non c'è bisogno d'altro.

Ci siamo rivelati grandissimi occidentalisti, più della stessa élite occidentale. Abbiamo attribuito alla civiltà politica occidentale delle capacità che non aveva affatto. Non è neanche così strano – eravamo veri dilettanti. Un dilettante segue una logica lineare, senza sentire le difficoltà o sottovalutandole fortemente. Un professionista, al contrario, si è già fatto i bernoccoli all'inizio del cammino. Capisce bene cosa si può attuare e a che prezzo e cosa non si riuscirà mai a ottenere. Il dilettante semplicemente non vuole sapere questo, è prigioniero delle idee. Si capisce, nella schiacciante maggioranza dei casi ha ragione il professionista. Peraltro i rarissimi successi dei nuovi e dei dilettanti talvolta hanno significato uno strappo radicale nel problema. La scienza conosce bene tali casi e non solo la scienza.

Non solo credevamo nel valore universale del Diritto e della Libertà; eravamo convinti che proprio questi valori sono anche la forza che muove il mondo libero – sono anche lo scopo nettamente percepito, rigidamente formulato, perseguito in forma pianificata e continua del suo sviluppo; che in questo sviluppo si crea gradualmente una nuova, integrale costruzione del mondo, libera dalla lotta senza vergogna e crudele tra egoismi nazionali.

Ahinoi, questo bel quadro era infedele, creato dalla nostra inclinazione a prendere ciò che si desidera per qualcosa di reale. Questa è stata una scoperta triste, ma non letale. Le basi ideali del modello occidentale ci attraevano ben più delle loro attuali realizzazioni.

Abbiamo preso l'ideale pronto, senza perfezionarlo e completarlo in alcun modo. Tranne uno: abbiamo riconosciuto profondamente l'unicità dell'ideale, il suo senso imperativo e la sua dimensione globale, che danno alla comunità mondiale la chance di una vita certa in un mondo giusto e sicuro. Agivamo anche nei confini planetari di questo “idealismo politico”, che allora non si chiamava ancora per nome.

I menzionati motivi personali costringevano la cerchia dei dissidenti, in cui prevalevano notevolmente non credenti e agnostici, a vivere secondo il principio della morale religiosa “Fai quel che devi e sia quel che sia”. Ma questo significava agire caparbiamente come se proprio da noi dipendesse l'inserimento dell'ideale nella polita mondiale. Al contrario, nessun politico di allora osava considerare i principi enunciati solennemente come un serio dovere di stato né credeva nella loro attuazione. (Il presidente Carter è l'eccezione che conferma la regola.)

E' tempo di delineare nettamente la contrapposizione tra l'idealismo politico e la politica reale – la contraddizione centrale della modernità, che determina una crisi globale, morale, giuridica e politica e che richiede insistentemente tolleranza.

La differenza radicale di questi indirizzi sta nella mancata coincidenza delle scale di valori. Per l'idealismo sulla vetta della scala c'è il principio nettamente formalizzato, la norma, la procedura che non dipendono da alcun interesse, ma incarnano il complesso delle idee (libertà, equità, umanità – si può valutare la sufficienza o la carenza dei criteri) e l'insieme dei tabù. Questa è la priorità principale e solo questa sta alla base di tutte le decisioni parziali.

Ma la prima priorità della politica reale, al contrario, è un qualche interesse (la sovranità, gli interessi geopolitici, economici, e questo è poco) o un complesso di interessi; nelle circostanze che cambiano la priorità degli interessi cambia e nel conflitto tra gli interessi il ruolo principale appartiene alle circostanze e non ai valori. Ipocrisia, inganno, espansionismo, aggressività, sfiducia, chiusura ed egoismo nazionale per secoli sono stati i metodi tradizionali della politica reale, le armi della guerra diplomatica di tutti contro tutti. Sua prosecuzione era riconosciuta freddamente la guerra vera e propria. Di tali metodi non si doveva essere orgogliosi, ma anche nasconderli era impossibile; erano ritenuti inevitabili, unici e perciò accettabili – perfino obbligatori. Ecco perché né i milioni di vittime di Stalin, né la furiosa propaganda di Hitler, né la bruciante vergogna di Monaco furono recepiti a loro tempo nel mondo come una minaccia mortale alla civiltà che richiedeva una risposta dura. Tale risposta era considerata impossibile, la politica invece è l'“arte del possibile”. Solo una volta nella storia ci si è resi conto che questa “arte” era andata troppo lontano; che il “possibile” e l'“impossibile” dovevano dipendere da noi, da ciò che eravamo d'accordo di permettere. A metà del XX secolo si è mostrato seriamente che l'incubo sanguinoso di due Guerre Mondiali, le armi chimiche e nucleari, l'Olocausto e le deportazioni staliniane di popoli alla fine avevano convinto la comunità mondiale della necessità di costruire un nuovo paradigma, una nuova costruzione politica del mondo.

Nel “nuovo pensiero politico”, enunciato da A. Einstein, B. Russell, A. Sacharov, M. Gorbačëv e molti altri, primeggiava, secondo me, il principio: “Il diritto è fuori dalla politica e sopra la politica”, che permette di escludere dall'“arte del possibile” gli artifici che avevano condotto all'incubo. L'idea di questa cerchia la chiamo pure “idealismo politico”.

Ecco perché lo Statuto dell'ONU e la Dichiarazione Universale si presentavano come un momento chiave della storia, un punto di non ritorno della trasformazione morale del mondo. Niente di tutto ciò.

La lista degli esempi del cinico disprezzo della comunità internazionale per le proprie altisonanti dichiarazioni occuperebbe interi tomi. Ricordiamo i bombardamenti a tappeto e atomici di città pacifiche; mezza Europa consegnata alla tirannia staliniana. Basta con i miti, l'esercito sovietico non ha liberato nessuno – l'esercito che aveva respinto l'attacco dell'aggressore si è trasformato istantaneamente in un orda di occupanti e pure di stupratori e di sciacalli non appena attraversati i confini dell'URSS. Chi e come abbia ispirato questo sciacallaggio, come sia esploso e si sia sviluppato è un tema particolare. Ricordiamo anche Norimberga, dove un antropofago ha processato un altro antropofago per cannibalismo (ecco un esempio – per 3 giorni il tribunale ascoltò l'accusa ai nazisti di aver fucilato migliaia di ufficiali polacchi a Katyń, ma ogni membro della corte sapeva con precisione chi e quando aveva ucciso i polacchi). In questa serie, naturalmente, c'è molto della pratica del Consiglio d'Europa, dell'OCSE, delle commissioni dell'ONU.

Al centro della politica mondiale ci sono come prima ambizioni e interessi geopolitici. La politica ha adattato i valori universali al proprio operato, come strumento di lavoro. I grandi principi si sono spostati nell'ambito della retorica rituale e vengono utilizzati per imitazione. Ma la politica reale non è capace di incarnare il nuovo paradigma – l'uno e l'altra sono incompatibili. Il malefico utilizzo delle idee rubate le scredita davanti al pubblico.

Peggio ancora – la real politics [12] e le più belle intenzioni condurranno sempre e inevitabilmente nel gorgo di una pericolosa immoralità. Gli alti scopi dichiarati, separati dalla vita politica di tutti i giorni, si trasformano in slogan – tanto più pomposi, quanto più falsi. Nell'ambito della polita reale era del tutto impossibile non permettere ai boia di Katyń di andare a Norimberga; certo, erano inevitabili anche l'accordo di Jalta e la consegna a Stalin di molte migliaia di persone da mandare ai lavori forzati e alla morte. E tutta la storia russa dell'ultimo mezzo secolo non è la fagocitazione di sincere intenzioni da parte della polita reale? Molte nefandezze dell'inizio della riforma dell'URSS sono più il destino che la colpa dei gorabcioviani “architetti della perestrojka”, circondati dalla malvagia marmaglia del Politbjuro. E' evidente anche nelle pale da artificiere usate a Tbilisi [13], anche nei carri armati a Vilnius [14]. La politica reale è una catena sanguinosa. Allora forse la tragedia della Cecenia ha le sue radici a Sumqayit [15], a Bakù [16], a Chodžali [17] e a Vilnius e con il tempo si verserà del sangue da qualche altra parte? E le assai condizionate “elezioni” presidenziali del 1996 non ci hanno fatto l'effetto di farsa, ci sia permesso dirlo, delle “elezioni” del 2007 e del 2008? Il circolo vizioso della real politics si è avvolto fino a Putin. E senza strapparsi dal circolo, non ci libereremo della nostra storia da sgobboni, crudeli e bugiardi. I metodi della politica reale sottomettono a se lo scopo, trasformandolo a proprio piacimento, non sono adatti per raggiungere alti scopi. La divergenza tra realismo e idealismo in politica non presuppone per natura una terza scelta, lo vuoi o non lo vuoi – tocca scegliere tra i due.

Riassumo. La resistenza russa al regime non occupò e non poteva occupare posizioni politiche. Queste avrebbero significato pretese di potere, che nell'URSS di allora sarebbero state semplicemente comiche. Non si tratta solo di circostanze esterne. Questo è anche colpa nostra. Ma è anche un predominio donato dalla storia. Liberi dalle tradizionali preoccupazioni politiche, risolvibili con i metodi tradizionali della tradizionale real politics, restammo da soli con questioni dolorose. Si tratta, per esempio, di cosa sia il “patriottismo” e cosa la “responsabilità civica”, e principalmente se gli inevitabili conflitti tra interessi si possano risolvere solo con menzogne, ricatti e minacce assordanti, con pressioni economiche o militari e infine con il sangue. E così via – di questo tratta l'intero articolo.

La maggior parte di noi riteneva che non ci occupassimo di politica, ma di diritto. E' uno sbaglio collettivo, infatti anche la politica era affare nostro. Non ci occupavamo di politica reale, ecco. Non abbiamo inventato nulla, non abbiamo arricchito in alcun modo l'ideale. Semplicemente abbiamo aspirato onestamente e caparbiamente a incarnarlo nella vita. La nostra politica era in effetti secondo i canoni dell'idealismo politico. In questo sta il nostro contributo alla nostra causa mondiale.

Invece i leader delle grandi rivoluzioni pacifiche dell'Europa orientale al contrario di noi non potevano non dichiarare ambizioni politiche. Questo è diventato il loro debito, il loro ruolo storico, la loro chance di appoggiare la libertà in un mondo, che continuamente e dappertutto schiaccia la libertà, per difendere la quale, ahinoi, si trovano pochi volontari. E questi hanno sfruttato brillantemente questa chance; hanno fatto questo lavoro nel modo migliore. Le loro vittorie sono state il più importante avvenimento sociale positivo dello scorso secolo. Del tutto paragonabile alla vittoria sul fascismo – in ogni caso, moralmente più pulita. Certo, in questo lavoro era inevitabile una qualche parte di real politics. Ma questa era la parte più piccola e, al contrario, predominava consapevolmente l'idealismo politico – il motore di tutto il lavoro. E neanche questo avrebbe potuto essere altrimenti.

Due potenti fattori hanno determinato, secondo me, tale schiacciante predominio dell'idealismo. 1° – la natura delle persone che si sono messe a lottare contro i regimi totalitari. I Kos-Kor e Solidarność, Charta 77 e il “Fronte Popolare” [18] non erano campi in cui fare carriera o cercare il benessere! E il 2° fattore è la natura interiore degli oppositori, di coloro che impersonavano il regime. Ecco, questi nella politica reale erano come pesci nell'acqua.

Notiamo che la lotta contro il comunismo totalitario con le sue stesse armi, con i metodi della politica reale è una cosa del tutto insensata. Se qualcuno padroneggiasse queste armi abbastanza da poter combattere alla pari, perché dovrebbe lottare contro il regime? Questi avrebbe bisogno di entrare nelle sue file e cercare la propria felicità al loro interno, cosa che osserviamo pure disgustosamente spesso nella nostra Patria.

E adesso la domanda – cosa devono fare ora i dissidenti dell'Europa orientale di quel tempo glorioso, divenuti adesso una forza politica seria e cosa dobbiamo fare noi, caparbia minoranza perseguitata? C'è in generale qualcosa che potremmo o perfino dovremmo fare insieme?

C'è un lavoro molto importante, per cui non ci sono altri lavoratori che loro e noi. Cioè quelli che sanno di che si tratta e non hanno aspettato doni insperati del destino. Forse abbiamo già un po' tardato con questo lavoro. E' una nostra comune mancanza. Abbiamo un pochino esitato, direi pure che è un peccato.

Secondo me, non c'è neanche bisogno di descrivere questo lavoro, noi tutti lo sentiamo sulla nostra pelle. Abbiamo bisogno di ottenere che i valori universali in cui abbiamo l'onore di credere seriamente cessino di essere false parole magiche in esperte bocche politiche.

Sergej Kovalëv [19]

15.07.2009, “Novaja gazeta”, http://www.novayagazeta.ru/data/2009/075/00.html (traduzione e note di Matteo Mazzoni)

[1] Nell'originale real politics.

[2] E' difficile trovare un equivalente del russo inakomyšljaščie. “Diversamente pensanti” è una buona traduzione letterale e allude anche a certo linguaggio politicamente corretto...

[3] “Movimento Democratico dell'Unione Sovietica” (il corsivo, qui e altrove, è mio).

[4] Generale ucraino (il nome viene più spesso scritto alla ucraina Petro Grigorovič Grigorenko), che iniziò a criticare la linea del Partito sotto Chruščëv per poi divenire un vero e proprio dissidente e sperimentare carceri e ospedali psichiatrici.

[5] Vladimir Konstantinovič Bukovskij, scrittore e attivista politico ancora vivente che ha sperimentato carceri e ospedali psichiatrici sovietici.

[6] “Cronaca”.

[7] Così, testualmente, viene definito Stalin oggi dai mezzi di informazione di massa ufficiali.

[8] Dichiaratamente volontarie, realmente forzate.

[9] Il “partito del potere”, quello che porta semplicemente avanti la politica di Putin.

[10] Si tratta del Majdan Nezaležnosti (Piazza dell'Indipendenza – a Kiev), Majdan per antonomasia, dove si svolsero i fatti della “rivoluzione arancione” ucraina.

[11] Komitet Oporu Społecnego (Comitato di Resistenza Sociale) e Komitet Obrony Robotników (Comitato di Difesa dei Lavoratori), movimenti del dissenso polacco.

[12] Quella che siamo abituati a chiamare Realpolitik (vedi nota 1).

[13] Nell'aprile 1989 a Tbilisi i soldati sovietici dispersero una manifestazione pacifica a colpi di pala, facendo numerose vittime.

[14] Capitale della Lituania dove nel gennaio 1991 i soldati sovietici attaccarono la sede della televisione pubblica facendo molte vittime.

[15] Città dell'Azerbaijan sul Mar Nero, dove nel febbraio 1988 i soldati azeri massacrarono decine di armeni.

[16] Capitale dell'Azerbaijan, dove nel “gennaio nero” del 1990 i soldati sovietici fecero strage di civili.

[17] Città dell'Azerbaijan orientale dove i soldati armeni fecero strage di civili nel febbraio 1992.

[18] Raggruppamento politico russo dell'epoca della perestrojka.

[19] Sergej Adamovič Kovalëv, biofisico, dissidente con esperienza di GULag e di prigioni.


http://matteobloggato.blogspot.com/2009/07/il-dissenso-e-il-rifiuto-della.html

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